Somewhere

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“Somewhere over the rainbow” cantava Judy Garland nel mitico Mago di Oz. Avrei desiderato davvero essere altrove durante il film di Sofia Coppola indegnamente premiato con il Leone d’oro al festival di Venezia. Un film noioso, banale, falsamente d’autore. Nel 1953 e nel 1956 il leone d’oro non fu assegnato perchè non vi era nessun film ritenuto degno del premio maggiore. Non sarebbe stato forse il caso di fare lo stesso quest’anno? Cosa sarà piaciuto alla giuria di Somewhere? Probabilmente l’ambientazione nel mondo dello Showbiz con i suoi vizietti e i divertenti retroscena. Noi poveri umani, che andiamo al cinema per sognare un po’, non ci siamo identificati e alla fine del film non avremmo abbandonato nel deserto una Ferrari con tanto di chiavi inserite…

Bande a part

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Bande a part è uno di quei film che non si dimentica. Il critico cinematografico può dilungarsi ore ed ore a parlare dei perchè ma io sostengo che sia un film di “pancia” e non di “testa”. Potrei stare ore ed ore a guardare la scena del ballo. Quei tre disgraziati che mettono scompiglio in un tranquillo bar ballando a tempo perfetto. Che altro spiegare? Si rimane ipnotizzati e basta. Capita anche nella scena del ballo di “Le notti della luna piena” di Rohmer e in “Pulp Fiction” di Tarantino. Nel cinema il ballo è una costante come nel recente Black Swan ma sono pochi davvero i film nei quali vorremmo essere noi i ballerini, uno di questi è Bande a part, di Jean Luc Godard.

Il concerto

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Il Concerto è un film semplicistico, bisogna ammetterlo, così come in parte lo è Train de vie, altra famosa pellicola di Radu Mihaileanu. Eppure è un film poetico ed entusiasmante che sa far ridere e anche commuovere. Qualcuno dirà per questo motivo che è un film ruffiano, un po’ come una sviolinata di un violino tzigano. Eppure al pubblico piace perchè è quello che vuol vedere sullo schermo e quando si riesce ad impacchettare un prodotto del genere si compie sempre un buon lavoro. Per questo motivo Il Concerto è stato uno dei migliori film della stagione 2009-10.

La meglio gioventù

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Matteo, Nicola e Giorgia Un interno di famiglia a Roma nell’estate del 1966, due fratelli che preparano gli esami universitari prima di partire per le vacanze estive. E’ così che inizia “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, i fratelli sono Matteo e Nicola, i bravi Alessio Boni e Luigi Lo Cascio, e in quest’estate succederà qualcosa che gli cambierà la vita ed è l’incontro con Giorgia (Jasmine Trinca) una ragazza malata di mente che i due con molta ingenuità fanno scappare dal manicomio cercando di riportarla in famiglia. Il loro fallimento porterà i due a decisioni importanti: Matteo lascerà la facoltà di Lettere per entrare in Polizia mentre Nicola continuerà a studiare Medicina e sceglierà di specializzarsi in psichiatria. Due scelte profondamente diverse ma a loro modo simili perché entrambe motivate dalla profonda voglia di cambiare e che rappresentano la divisione che caratterizzò tanti giovani di quella generazione. Sotto gli occhi di Matteo e Nicola passano i principali eventi della Storia italiana di quegli anni: dall’alluvione di Firenze alla contestazione universitaria fino alla nascita del terrorismo. Le vite dei due ragazzi prendono direzioni diverse ed intanto diventano uomini, Nicola diventa psichiatra negli anni in cui con la legge Basaglia vengono chiusi i manicomi e si porta avanti un nuovo tipo di cura per le malattie mentali. Ha una figlia da Giulia, ragazza contestatrice come lui ma che sceglierà l’assurda via del terrorismo e della latitanza. Nicola sarà costretto allora a crescere da solo la piccola Sara mentre si svolgono le vite degli altri protagonisti. Il padre dei ragazzi morirà giovane colpito da una devastante malattia, la madre (Adriana Asti) resterà sola a portare avanti la sua missione d’insegnamento ai ragazzi, la sorella più giovane sposerà il migliore amico di Nicola e la sorella maggiore Giovanna continuerà la sua vita di magistrato in giro per l’Italia.

Il film realizzato ed ideato per la televisione in quattro puntate ha avuto una storia curiosa in quanto la Rai misteriosamente ha deciso di non mandarlo mai in onda. Il regista ha così deciso di ricavarne un film per il cinema uscito in due atti e che è stato premiato nella sezione “Un certain regard” al Festival di Cannes 2003. La prima parte si ferma al 1980, la seconda procede fino ai giorni nostri. Se il primo atto è più concentrato sulla ricostruzione storica e politica, il secondo è decisamente più orientato verso i protagonisti e verso i loro intimi sentimenti. Nicola arriva alla dolorosa scelta di far arrestare Giulia mentre Matteo acuisce i suoi problemi relazionali con gli altri. E’ proprio sul giovane poliziotto che l’occhio del regista si posa per analizzare in profondità il suo carattere chiuso ed ostile verso gli altri, un’ostilità che nasce da un conflitto interiore che lo porta all’annullamento di se stesso. Sceglie la via del suicidio ma lascerà una traccia, un figlio che avrà con Mirella, una fotografa siciliana, che permetterà tempo dopo ai familiari di sopportare con maggiore serenità la dolorosa perdita. Passano ancora gli anni, finisce la stagione del terrorismo, arriva il ciclone Tangentopoli, ci sono le stragi di mafia e i figli crescono. Cresce Sara la figlia di Nicola, cresce Michele il figlio di Matteo, ed è con un confronto con questa nuova generazione che il film si chiude. Sara decide di sposarsi e rincontra la madre uscita dal carcere, e nel loro abbraccio possiamo vedere una sorta di riconciliazione tra la generazione passata e quella nuova. Infine Michele ripercorre i passi dello zio e raggiunge la Norvegia lì dove nel 1966 Nicola era in un certo senso scappato dopo la fallita esperienza con Giorgia. Marco Tullio Giordana ha voluto ricostruire quarant’anni di Storia italiana e lo ha fatto nel migliore dei modi, così come Edgar Reitz aveva fatto con “Heimat” per la storia tedesca, scavando non solo negli ideali pubblici e più propriamente politici ma anche e soprattutto nei sentimenti privati dei suoi personaggi.

Alfie

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Il Don Giovanni è una figura da invidiare per la facilità con cui seduce le donne o è da compatire perchè in fondo combatte contro la sua solitudine? Guardando Alfie con il bravissimo Michael Caine vi chiederete proprio questo.

Alfie è un film del 1966 diretto Lewis Gilbert e tratto da un romanzo di Bill Naughton. Questi nomi oggi dicono poco ma si pensi che il primo ha diretto ben 3 film di 007 e il secondo è stato uno dei più prolifici scrittori irlandesi del 900. Ciò che resta nella memoria di tutti è in realtà il protagonista Caine, il quale rende perfettamente un personaggio clamorosamente amorale, dedito senza preoccupazione a sedurre più donne possibile. Un simpatico mascalzone che in fondo non può non esserci simpatico.

Eppure il film tocca temi non superficiali. Alfie si scotta infatti con la realtà, lui che ama le donne solo per la dimensione del piacere sarà costretto a scontrarsi con la dimensione del dolore. Tutto resta però sospeso in una splendida atmosfera da Swinging London degli anni 60. Non c’è dolore nè amarezza nell’ultima scena in cui Alfie si allontana con un cagnolino sotto le note dell’omonima e famosissima canzone di Burt Bucharach.

Nel 2004 è stato girato un remake interpretato da Jude Law e diretto da Charles Shyer ed ambientato a New York.